Il 7 Maggio dalle 11 alle 13 Innovation Village, il network sull’innovazione organizzato da Knowledge for Business che apre oggi la sesta edizione tutta digitale, darà ampio spazio ai beni culturali affrontando il caso di Procida, per un ripensamento strategico del rapporto tra cultura e innovazione; e i borghi digitali del Sud Italia tra prospettive e conflittualità.
Ci saremo anche noi di Medaarch con un intervento di Amleto Picerno Ceraso che racconterà il caso del Centro per l’Artigianato Digitale come luogo di rigenerazione urbana e culturale e come modello di sperimentazione e ricerca continua anche attraverso le tecnologie digitali.

Ma in che modo è possibile ripensare al rapporto tra cultura e innovazione? Quali sono oggi gli spazi di aggregazione? Come il digitale sta trasformando anche l’ambiente fatto di materia? Se ne parlerà durante il talk di domani, intanto vi lasciamo alla riflessione di Amleto Picerno, fatta un pomeriggio di due giorni fa.

Dall’agorà allo spazio virtuale

Per attivare dinamiche di rigenerazione dei territori e in generale della realtà è possibile lavorare parallelamente su contenuti e spazio fisico. Lo spazio infatti è un elemento fondamentale in questo discorso. Ci sono fenomeni dello spazio virtuale che cercano di conformare lo spazio fisico e ci sono istanze dello spazio fisico che ispirano luoghi virtuali. Penso ad esempio alle stanze di Facebook in cui accediamo ad appuntamenti virtuali con amici, parenti, colleghi o con eventi culturali; alle bacheche social che diventano piazze aperte agli incontri, al pettegolezzo, alle proteste e alle condivisioni; o ancora alle stories di Instagram dove imprimiamo momenti della giornata, nel frattempo che li viviamo.

Fare architettura oggi gli strumenti di design computazionale e fabbricazione digitale - Medaarch

Ogni cosa non è un’isola: la visione olistica nelle discipline

Questa sorta di commistione tra spazio fisico e virtuale la stiamo vivendo anche in altri ambiti, ad esempio da un po’ di tempo a questa parte stiamo assistendo ad una fusione delle discipline dei saperi, scaturita da una visione olistica di tutti gli ambiti. Ci stiamo rendendo conto che ogni sapere, ogni ambito della nostra vita e della nostra società è sempre più relazionato agli altri. Ogni cosa non è a sé stante. E ciò implica di avere non più una visione di impianto solamente positivista, ma piuttosto sistemica.
La cosa più interessante è che ciò che ha abilitato questa fusione e questo peculiare smarrimento dei limiti, paradossalmente è stato il digitale.

La scomparsa dei limiti tra materia e pensiero nelle discipline dell’architettura, dell’ingegneria, del design sta pian piano emergendo.
L’imprinting del pensiero positivista su cui la scienza è cresciuta, ha portato sostanzialmente ad una visione lineare nell’approccio alla decifrazione della realtà: se ho un problema, cerco di scomporlo in piccoli problemi più semplici e l’idea che ho è che risolvendo ogni piccolo tassello, arrivo a risolvere il macro sistema. Questo tipo di approccio, cruciale ed utile per molti versi, a lungo andare tuttavia ha anche rivelato i suoi limiti: ci si è resi conto che anche risolvendo un pezzetto di problema alla volta, il sistema comunque non funzionava. Non trovava soluzione.

Grazie anche all’apporto del digitale, della teoria dell’informazione e soprattutto alle speculazioni culturali e scientifiche, siamo riusciti a capire meglio le relazioni fra questi piccoli problemi e il modo in cui questi si influenzano, l’uno rispetto all’altro.  Questo tipo di approccio, come architetto lo risento forte in tutto quello che con il mio team di progettisti alla Medaarch facciamo quotidianamente.

Il digitale per comprendere meglio la materia

Ciò che ha permesso di progettare diversamente, di vedere le cose diversamente è stato proprio il digitale.
E proprio il digitale ha prodotto un risultato davvero inaspettato: paradossalmente ha contribuito ad una migliore comprensione della materia. La natura del digitale, così come la capacità generale della digitalizzazione di riportare tutto nel mondo immateriale ha, dal mio punto di vista di progettista, ri-materializzato tutto.
Il digitale ci ha mostrato meglio come funziona la materia nel profondo, ci rende più evidenti le forze che contiene, ci mostra come si organizza e come si può contribuire progettualmente ad una sua differente organizzazione.

Se fermiamo a rifletterci, è davvero affascinante che paradossalmente sia stato proprio il digitale, istanza del tutto immateriale, a permetterci di vedere l’aspetto fisico della materia rendendone esplicite le forze, la capacità di queste di stare insieme, di rispondere alle sollecitazioni. E, grazie alle nuove tecnologie, ha ricondotto anche l’architetto a rivedere la materia, cioè a farsi carico di quelle istanze fisiche che capisce meglio, grazie anche all’esplicitazione, alla semplificazione, all’emulazione e simulazione che il digitale abilita.

Dalla sintesi di approcci emerge una nuova figura professionale

Questa sintesi di discipline, di pensiero e approcci che si sta sempre più affermando, quasi naturalmente ci ha portati verso l’identificazione di una nuova figura professionale che ha molto più a che fare con un atteggiamento artigianale nei confronti della materia, dell’architettura, del disegno, delle città.

È su questo principio che abbiamo fondato il Centro per l’Artigianato Digitale, perché lo spirito dell’artigiano è in qualche modo sintesi e sperimentazione continua di aspetti legati alla fisicità delle cose, all’estetica, alle funzioni, alla bellezza, in una sorta di laboratorio senza fine.
Per noi è venuto naturale mettere su questa esperienza e chiamarla Centro per l’Artigianato Digitale dove le comunità che si ritrovano intorno a questo nuovo sentito e vivono uno spazio dove lavorare, dove sperimentare continuamente nuovi approcci progettuali, dove inoltre rivedere l’idea di impresa, lavorare con i capitali privati e le istanze pubbliche.

Com’è possibile ripensare in modo strategico al rapporto tra cultura e innovazione?

Ne parlerò insieme a tanti professionisti al talk del 7 maggio organizzato da Innovation Village, che ha come titolo un interrogativo non facile da sciogliere e, proprio per questo, molto affascinante. Si perché, per rispondere alla domanda “Com’è possibile ripensare in modo strategico al rapporto tra cultura e innovazione?” si dovrebbe avere chiaro i due termini della domanda, cultura e innovazione appunto, che già di per sé sono ampi. Perché se l’innovazione la riusciamo ad indentificare in un trend di miglioramento delle performance di un evento o di un prodotto, riuscire a collocare il termine cultura, è invece molto più complesso.

Noi architetti siamo più propensi a identificare la cultura analizzandone i risultati che ha prodotto in una determinata società, in un determinato periodo storico, attraverso le manifestazioni artistiche, fisiche di oggetti, edifici, opere o città. A me, che sono architetto, è più facile identificare quell’espressione che si traduce in qualcosa di fisico.

Il digitale come abilitatore narrativo di luoghi, cultura e innovazione

E oggi in cosa si è tradotta la cultura? Da un lato in un qualcosa che non riusciamo più a gestire: l’operato dell’uomo denuncia l’incapacità di convivere con noi stessi e con l’ambiente naturale. Dall’altro lato il digitale dà la possibilità di ritrovarsi, come anche la pandemia ha dimostrato, e discutere al di là della materialità del tempo e dello spazio fisico. Questo significa che il digitale ha dato man forte alla parte di diffusione delle idee della conoscenza e del sapere che si riverberano in modo più veloce sulla città, sull’ambiente, sulla società.

Le persone oggi hanno uno strumento che prima non avevano, che ne amplifica i sensi, aumenta la capacità di diffusione delle idee le quali, specialmente quelle buone, dovrebbero cercare di riversarsi di nuovo sula materialità delle cose che conformano la nostra città, i nostri spazi, i nostri luoghi. Questo da un punto di vista degli spazi.
C’è poi un altro punto di vista da considerare, quello che riconosce al digitale una capacità simile al lanternino in mano a Eraclito: è lo strumento che ci dà la possibilità di scorgere cose che non avevamo visto prima perché non potevamo vedere, ci dà la capacità addirittura di simulare queste cose, di riprodurre la realtà per capirla molto meglio.

Ecco il doppio volto del digitale: da un lato uno strumento di indagine, come il lanternino di Eraclito, dall’altro lato, uno strumento affinché le idee si possano riversare in modo molto più veloce e positivo e avere un impatto più forte sulla realtà.

Il Centro per l’Artigianato Digitale come modello di sperimentazione continua

Il Centro per l’Artigianato Digitale è un modello di rigenerazione urbana perché cerca di creare una cultura della sostenibilità, della complessità incentrate sull’abitare dell’uomo su questo pianeta. E lo fa grazie anche alle tecnologie digitali. Il Centro per l’Artigianato Digitale quindi, come risultato di quello che realizza, è diverso dalla natura per cui è stato concepito. Rappresenta una sorta di laboratorio permanente che ripensa costantemente la realtà fisica che ci circonda, grazie all’utilizzo digitale e grazie alla community che esperisce il CAD.

È un modello, perciò, che narra appieno lo spirito che il digitale esprime nella cultura: un modello di laboratorio, non di fabbrica, un continuo luogo di sperimentazione e riprogettazione in una visione più dinamica possibile dove la realtà evolve cercando strade migliori.

Scuole al Centro

Questo è il modello che il Centro per l’Artigianato Digitale incarna: non di produzione, ma di sperimentazione e ricerca come idea in un’evoluzione naturale delle cose. Ed è proprio il ripensare sé stesso, questa attività di evoluzione continua connaturata alle istanze della natura, che diventa modello.

Tutto ciò è stato abilitato paradossalmente da uno strumento che non è un “prodotto della natura” ma una concettualizzazione dell’uomo: il digitale. Un amico inaspettato.

By Categories: Big Thinking, NotiziePublished On: 6 Maggio, 2021

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