Cento Architetti (e qualcosa in più) sono stati invitati da Cityvision, bellissima esperienza editoriale fondata da Francesco Lipari, ad esprimere una riflessione sul futuro della professione e dell’Architettura dopo l’emergenza Covid 19.
Come immagini il mondo dell’architettura dopo l’attuale crisi virale? Mi è stato chiesto.
Forse siamo ancora troppo dentro tutto quello che sta accadendo per poter avere uno sguardo lucido sull’architettura e sulla professione dell’architetto postpandemico. Uno sguardo che in questo momento rischia di essere offuscato, a fasi alterne, dalla paura che eventi del genere possano ripetersi con una frequenza sempre più intensa, e dalla fiducia che superata questa crisi saremo un po’ tutti più consapevoli ed attenti nei confronti del pianeta e della nostra sfera sociale.
Ho deciso perciò di non avventurarmi in quello che ora mi sembra un lavoro d’immaginazione con connotazioni oniriche troppo forti, e di concentrarmi nel capire cosa sto vivendo ora, in questa crisi, e che riguarda, in qualche modo, l’architettura e la mia professione.
Ecco quindi le due cose che, durante questa quarantena, ho imparato come architetto:
1) Ho imparato che tutto può fermarsi.
La routine quotidiana, travolgente e futile che ti lasciava con la sensazione di non aver tempo per tutto, si è fermata. Al netto dei possibili surrogati on line, si sono fermati gli incontri, le riunioni, i progetti, i tavoli di lavoro, le conferenze, le presentazioni, gli eventi, i workshop, i seminari d’aggiornamento, le lezioni, i calendari, i lavori, i cantieri, i concorsi, le scadenze, le cene di lavoro, le birrette defaticanti, le giornate off. Eppure, lavoro più di prima. Non so voi, ma a me capita così. È forse probabile che in un futuro di ricostruzione di senso e di materia, ci sia bisogno, ancora più di prima, di un architetto capace di sentire sempre lo spirito del tempo, del momento. Una professione che immagino immersa in una tensione produttiva tra l’immanenza del momento e della ricostruzione, e la propensione alla visione di un futuro. Chiamata a confrontarsi con un lavoro dove la vera utopia, che sempre ha accompagnato le nostre visioni, sarà costruire un mondo e un abitare possibile. Possibile anche in barba alla sconsideratezza che abbiamo dimostrato come genere umano nel sottovalutare la questione climatica, quella della disuguaglianza sociale, la questione del rispetto dei valori umani e tutte quelle questioni che, in questo momento, ci sembrano minime rispetto alla limitazione temporanea della nostra libertà. Eppure queste sono le questioni che rappresentano la vera emergenza.
2) Ho imparato che nulla veramente si ferma.
Questa affermazione non è un gioco retorico. È piuttosto la sensazione della spaccatura nella quale ormai, da circa un mese, passo le mie giornate. Le possibilità offerte dalla democratizzazione dei sistemi di comunicazione e di quelli di fabbricazione, hanno creato una rete di persone e professionisti riconvertiti all’ emergenza. Da qui sono fioriti progetti di RTI nel giro di due settimane, così come ampliamenti di ospedali, e produzioni di valvole e mascherine in stampa 3D. È vero, siamo in emergenza. Ma l’architettura che piace a me è sempre in emergenza. Lo è perché non è mai meramente celebrativa. Lo è perché intravede, oltre la necessità, oltre la funzione, uno stato d’emergenza a cui rispondere. Dovrebbe esserlo sempre di più, perché può nascere dall’emergere di processi collettivi che tengono insieme prospettive ed esigenze diversissime. Mi auguro lo sia. Perché anche il più piccolo atto d’architettura, ora e per molto tempo ancora, può nel suo piccolo rispondere a quelle emergenze che non possono più essere ignorate.
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