5 ago 2014, Marini – fraz. di Cava de’ Tirreni (SA).

Si dice che i ricordi d’infanzia segnino profondamente la vita degli individui. Per me è stato esattamente così!
Ho avuto la fortuna, come alcuni della mia generazione, di crescere in un antico caseggiato, di quelli con i muri di pietra e con gli infissi di legno e vetro soffiato che, ogni due anni, mio padre amorevolmente rinnovava scartavetrando la vecchia vernice, stuccando le piccole crepe che l’inclemenza del tempo creava, e applicando un nuovo strato di vernice verde scuro che contrastava con le imposte bianche e i muri scrostati di ocra rossa del fabbricato. Cambiare il vetro, poi, significava immergersi nell’odore dello stucco (che immancabilmente noi bambini usavamo per dar sfogo alle nostre fantasie) per fissare la lastra, e nei gesti cadenzati ed attenti che si avevano al cospetto di qualcosa di fragile.
Mi piaceva guardare da quelle finestre il panorama lì fuori.

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Il vetro sottile ed irregolare ammantava di un’aura romantica il paesaggio che mi circondava: le sagome poderose dei monti Lattari e, più in prossimità, i campi coltivati. Ho osservato per anni una coppia di vecchi coloni coltivare quei campi servendosi di soli strumenti rudimentali. Ricordo che il latte lo andavamo a prendere da quei coltivatori riempiendone una bottiglia (sempre la stessa). Questo accadeva tanto tempo prima che il riciclo rendesse meno condannabile ogni tipo di rifiuto. E ricordo chiaramente la sensazione del latte appena munto che scaldava la bottiglia nelle mie mani.
Alcuni amici di mio fratello maggiore che vivevano in città, invece ci raccontavano che loro il latte lo compravano nei negozi in buste chiuse che, una volta vuote, venivano buttate.

Vivevamo in una piccola frazione di Cava de’ Tirreni. Erano gli inizi degli anni settanta e dopo soli dieci anni ci sarebbe stato quel terremoto così violento da cambiare per sempre la fisionomia del paesaggio a cui ero abituato.
Successivamente i miei genitori acquistarono un appartamento in una palazzina di cooperativa, una delle tante che sorsero a cavallo degli anni ’70 e ’80. E devo dire che a tutti in famiglia inizialmente era piaciuto quel profumo di nuovo, di emancipazione, di spazi condivisi con altre famiglie dello stesso tessuto sociale. Si diceva: “E’ una palazzina abitata tutta da professionisti!”. C’era l’avvocato, l’insegnante, il medico…e poi c’era quello che ogni anno cambiava la BMW e nessuno sapeva che lavoro facesse.
Ricordo che affacciandomi alla vecchia casa potevo vedere i pomodori messi ad essiccare sulle terrazze in agosto, gli “spunzilli”, cioè i pomodorini raccolti a grappolo, appesi appena sotto la gronda dei tetti, c’erano perfino i sacchetti di carta del pane che accoglievano fasci di origano messi ad essiccare a testa in giù  nei loggiati.
Avevamo barattato tutto questo con una teoria di balconcini uguali che facevano riferimento a uguali appartamenti, con persone che cercavano in ogni modo di sentirsi uguali, se non per cercare, poi, di differenziarsi.
Nella mia nuova palazzina si raccontava di quel tale al terzo piano che aveva scelto il marmo più costoso per il suo pavimento, oppure di quell’altro del secondo che aveva fatto le porte all’inglese… ero poco più che un bambino e già sapevo che quel nuovo mondo non mi apparteneva.

Trascorsi la prima adolescenza cercando di trovare quella perduta unità con la natura.

A differenza dei miei coetanei, non frequentavo palestre o campi di calcio. La mia palestra era lì fuori! E allora via, a piedi o in bici, per i sentieri di montagna, la natura incontaminata, i viottoli tra i campi, ma anche per le semplici strade che attraversavano la mia città. Spesso correndo tra le frazioni di Cava de’ Tirreni, una traccia odorosa catturava la mia attenzione e subito i ricordi si riconnettevano a quell’infanzia trascorsa nei campi, che d’un tratto sembrava così lontana.
Più tardi venne il momento del confronto con i miei coetanei su quello che non ero mai stato e su ciò che non avevo mai fatto, e insieme a quel momento arrivò anche la voglia di divertirsi, di sbagliare, di crescere.
Venne l’età dei primi amori e poi quella dell’ Università che mi pose di fronte ad una scelta combattuta tra la passione per la natura e quella per le costruzioni. Scelsi la facoltà di Architettura abbracciando così entrambi i mondi: la natura e l’ artificio. Una volta laureato arrivò, poi, la voglia di affermarmi professionalmente, di avere una casa tutta mia e farmi una famiglia. Non avevo mai valutato, prima di quel momento, come questa volontà si dovesse poi scontrare con gli eventi reali della vita.
Ho lavorato per anni seduto ad una scrivania di una società per costruzioni. Progettavo, redigevo contabilità di progetto, avevo contatti con i fornitori. Tutto mi sembrava controllabile da quel tavolo. Un telefono ed un computer connesso ad internet: era tutto quello che mi serviva, ma rappresentava anche soltanto quello che avrei utilizzato.
Certo, avevo uno stipendio, le ferie pagate, la tredicesima e qualche piccolo benefit in busta paga, ma una vocina dentro di me mi diceva che non ero felice.
Se mi guardavo indietro, non potevo far altro che pensare di avevo tradito ad le aspettative che si fanno sul proprio futuro quando si è ragazzi. Avevo scelto una posizione comoda. In qualche modo mi sentivo sedato. Quando potevo, nei fine settimana scappavo via a ritrovare di nuovo la mia dimensione in quelle strade che avevano tanto segnato la mia adolescenza. Avevo bisogno di qualcosa che mi connettesse col mio passato.

Avevo bisogno di quello che sentivo di essere.

Un giorno, fatalmente, scoprii in vendita la vecchia casa colonica che vedevo sempre da ragazzo, durante le mie escursioni. Era quella col loggiato, con le poderose mura di pietra che, con un muro di cinta, chiudeva l’orizzonte della strada oltre il quale da piccolo immaginavo di vedere il mare.
Mi battei a ferro e fuoco per arrivare ad acquistarla e quando finalmente ci riuscii, mi sentii paradossalmente svuotato. Avevo realizzato ciò che desideravo da tempo, ma in fondo cosa avevo fatto di speciale? Avevo comprato qualcosa con i miei soldi, quei soldi guadagnati facendo altro da quello che volevo realmente fare, un lavoro che sì, mi aveva permesso di comprare la casa nei campi, ma che mi teneva lontano da quello che mi rendeva più felice: il contatto con quei campi.
Con la stessa arroganza di chi con il denaro poteva comprarsi anche i sogni, mi misi al lavoro per rendere il mio casolare abitabile. Avevo programmato già tutto per filo e per segno: lì avrei abbassato quel solaio, lì avrei abbattuto il muro, e poi avrei fatto altri collegamenti, comprato altri comfort…e l’ avrei fatto se non fosse arrivata un’ondata di eventi che avrebbe drasticamente cambiato la mia vita.
Era iniziata quella crisi economica dei nostri giorni che mi avrebbe portato a perdere il lavoro e pian piano ad avere sempre meno potere di acquisto. Tutto quello che mi rimaneva era quella casa a stato di rudere e un piccolo gruzzoletto di soldi che avevo messo da parte. Con questo riuscii a mettere a posto soltanto il piccolo fienile dove, attualmente, abito con la mia famiglia allargata. Oltre quello il vuoto, il silenzio, le mura prive di infissi che sibilavano al vento.

E fu in quel momento che capii che era giunta l’ora di mettermi in gioco e di provare con le mie sole forze a costruire, a sporcarmi le mani, ed a imparare dai miei errori una nuova conoscenza.

Oggi appena posso continuo nella ristrutturazione che si è ridotta ad un vero e proprio restauro. Eccomi allora a pulire quel soffitto con vecchie travi che avevo deciso di abbassare, a spazzolare e lucidare quella vecchia porta che avevo deciso di sostituire, a conservare quelle aperture verso l’esterno che avevo pensato di allargare.
Ora, ho una visione più nitida di quello che occorre per completare la mia casa. E questa visione è nella direzione del mantenere il più possibile quello che c’era, sforzandomi di scoprirne il significato. Man mano che procedo acquisisco esperienze che m’insegnano ad economizzare sui mezzi e sugli interventi, a pensare in modo più sostenibile.
Ora, so che per finire la mia casa non occorrono molti soldi!

Carlo, alias “ciore maggio”

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By Categories: NotiziePublished On: 6 Agosto, 2014

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