Cogliere lo Zeitgeist “spirito del tempo” come inteso da Hegel nel suo saggio “Lezioni sulla filosofia della storia” (1840), è una delle aspirazioni più alte alla quale ogni professionista vorrebbe fa tendere il proprio lavoro e le pratiche ad esso legate. In via teorica e al netto della difficile realtà quotidiana, si auspica sia così.
Ovunque lo Zeitgeist si trovi al giorno d’oggi sembra emergere lampante una strada, quella del digitale, che inevitabilmente va battuta affinché barlumi dello spirito del tempo presente, possano affiorare.
L’architettura e il design, così come le pratiche progettuali da oltre un ventennio fanno i conti con l’avvento del digitale all’interno del proprio ambito. Esse sono chiamate a rivedere dal profondo le possibilità alle quali il digitale stesso ha abilitato la realizzazione di differenti manufatti.
L’impatto del digitale in architettura, sta solo oggi mostrando l’immenso potenziale che porta con sé, lasciando il seminato delle sue prime speculazioni – più concettuali che sostanziali alle quali si era legato verso gli inizi degli anni novanta- per affermarsi come strumento d’indagine di nuovi approcci e pratiche.
Lo strumento digitale è per definizione una tecnologia. In quanto tale dimostra tutte le proprietà peculiari della tecnica. Quest’ultima vive infatti di alcuni fenomeni interessanti. Uno particolarmente intrigante riguarda il passaggio da fine ad ambiente. Ovvero in determinate condizioni si attua quel mutamento per cui ad un significativo aumento di aspetti quantitativi – nel nostro caso riferiti alla potenza di calcolo del digitale -, se ne produce uno di tipo qualitativo. Ciò significa che la nostra tecnologia ha travalicato l’obiettivo per cui è nata trasmutando da strumento digitale in ambiente digitale.
Questa modificazione si è riversata in due ambiti del design: uno riguardante l’aspetto progettuale e l’altro concernente le possibilità realizzative. Il primo risultato di questa modificazione ha attuato infatti un riavvicinamento tra il progetto e il manufatto e in futuro produrrà la nascita di una figura professionale capace di essere nuovamente sintesi di tutti gli aspetti legati al design e all’architettura.
Per quanto detto vorrei trattare l’impatto del digitale nell’attuale panorama manifatturiero in maniera da non slegare mai l’aspetto progettuale da quello realizzativo, proprio perché è nella loro fusione che si raggiungono i risultati migliori.
Per quel che riguarda l’approccio alla progettazione, inteso come coacervo di pratiche, tecniche, strumenti, concetti e paradigmi, il digitale offre un ambiente nuovo. Esso non è più considerato come supporto alle attività di design, ma ne diviene elemento fondante. I sistemi CAD ormai hanno perso il loro carattere di “aiuto” al disegno e, attraverso l’eliminazione della A, si è giunti ad identificare nell’acronimo CD, che sta per computational design, quelle pratiche progettuali possibili solo grazie all’uso del digitale. Infatti, sia per quel che concerne l’approccio parametrico gestito da software visuali di manipolazione delle informazioni attraverso algoritmi, come ad esempio in Grasshoppper, sia per quanto riguarda l’approccio generativo, effettuato attraverso lo stesso Grasshopper – in un utilizzo più spinto o con software più propriamente adatti alla gestione di un grande quantitativo di informazioni con cui si attua un tipo di programmazione orientata agli oggetti,- si è difronte a strumenti che non potrebbero essere sostituiti da una versione “analogica” degli stessi, così come invece accadeva con strumenti CAD.
Proprio nella programmazione orientata agli oggetti, messa in pratica ad esempio attraverso Processing, si attua quel principio emulativo in ambito computazionale con cui si realizza appieno l’utilizzo degli strumenti digitali intesi come mezzo di indagine in ambito progettuale. I software come Processing permettono ad esempio di emulare le dinamiche con cui i c.a.s. (sistemi complessi adattivi) evolvono ed organizzano la materia di cui dispongono in natura in determinate condizioni.
In questi programmi vengono attribuite precise informazioni ad enormi quantità di oggetti, intesi come elementi geometrici generici (punti, linee, sfere, geometrie), in modo da definirne caratteristiche proprie e comportamentali. Ad esempio possiamo dare l’informazione per cui tanti punti in movimento all’interno di uno spazio virtuale mantengano tra loro una distanza che varia in un range predeterminato. Simili informazioni possono essere attribuite anche allo spazio dove i punti si muoveranno. Possiamo definirne dimensioni, caratteristiche puntuali e relazionali, come ad esempio la repulsione dei punti quando si avvicinano troppo ai limiti dello spazio geometrico. Una volta stabilite le condizioni iniziali dello spazio e dei suoi agenti, i punti, i software di cui sopra sono in grado di osservare nel tempo – e tenerne traccia- i percorsi che i punti disegneranno. Questi percorsi -visualizzati ad esempio come linee – avranno un andamento predeterminato ma tanto più complesso quanto più alto è il numero dei punti in movimento e quanto più varie sono le informazioni che diamo a loro e allo spazio geometrico in cui si muovono.
Tale approccio ci porta alla generazione di forme che sono il risultato di un continuo ciclo di negoziazioni tra istanze informative in continua evoluzione. Ciò avviene in modo simile anche in Natura. Ad esempio simili sono i processi che mettono in essere gli stormi di uccelli in volo o gli sciami di api per la costruzione del proprio alveare. In effetti l’alveare è un manufatto delle api con un proprio design, delle funzioni e delle strutture. Questa architettura naturale, dotata di performance qualitative altissime, non ha un disegno predeterminato. Sembra plausibile l’ipotesi che essa venga generata da un continuo scambio di informazioni tra le api all’interno dello sciame e tra le api e l’ambiente. L’alveare, nella sua accezione formale e funzionale, è il risultato di un complesso sistema che agisce a livello locale (scambio di informazioni tra ape e ape) su informazioni semplici ( teniamo tra noi api questa distanza, seguiamo questo odore, etc etc) Tale scambio di informazioni se ripetuto nel tempo un numero elevatissimo di volte produce un risultato (l’alveare) che, nella sua qualità, è più complesso e performante della somma delle singole informazioni scambiate puntualmente dalle stesse api. Questi risultati, tipici all’interno dei sistemi complessi, vengono chiamati “comportamenti emergenti”. Non esiste un’ape architetto, bensì le caratteristiche di tutto il sistema complesso “sciame”, con le quali esso comunica, vive ed organizza le proprie attività, permettono la nascita di una risposta “ambientale” (intesa nella duplice veste di relazione e modificazione dell’ambiente in cui la api vivono) che si manifesta a noi come la costruzione di un alveare.
Sistemi computazionali che emulano comportamenti naturali su descritti, trovano applicazione nella generazione di forme che seguono un processo progettuale cosiddetto bottom-up, contrapposto a quello top down in cui la forma è in qualche modo pre-fornita.
Alla luce delle possibilità che un tale approccio computazionale offre all’ambito architettonico e del progetto di design, sembra una naturale conseguenza la rivisitazione di alcuni paradigmi progettuali che sempre sono stati utilizzati dai progettisti come riferimento per i propri lavori. La Natura, forse il paradigma più forte e durevole, è vista oggi, grazie al digitale, come riferimento che per i suoi processi più che per le sue forme. I processi infatti sono capaci di generare non un singolo risultato, ma una famiglia allargata di possibili prodotti, un fenotipo all’interno di un genotipo. Se letto alla luce delle capacità di generare processi e prodotti con qualità più alte (ambientali, funzionali, sociali, economiche) il digitale dispiega un’infinita possibilità d’utilizzo come strumento d’indagine della pratica progettuale.
Per quel che concerne, invece, l’impatto del digitale sulle pratiche costruttive e sulle tecniche manifatturiere, esso si riversa in questo momento in tutte le attività che vanno sotto il nome di digital fabrication.
In particolare, la fabbricazione grazie all’uso di macchine a controllo numerico sempre più preformanti e flessibili, da un lato abilita alla realizzazione di morfologie che altrimenti sarebbero impossibili da concretizzare, dall’altro sprona l’approccio progettuale verso la massimizzazione delle potenzialità lavorative delle stesse macchine.
L’aspetto interessante di questo approccio è legato al fatto che potenzialità degli apparati di fabbricazione digitale non riguardano solo tecnologie nuove, come ad esempio la stampa 3D, ma sono allargate a tutta la gamma di lavorazioni che potrebbero essere implementate attraverso l’uso del digitale.
Come spiega Neil Gershenfeld, direttore del Center for Bits and Atoms del MIT, “Il futuro è trasformare i dati nelle cose, e non è né un sistema additivo né sottrattivo. Nel 1952 è stato collegato il primo computer ad una fresatrice. Quello che si è sviluppato dal 1952 in avanti è una rivoluzione digitale nel fare le cose”. Per Gershenfeld, la vera rivoluzione della fabbricazione è molto più profonda: consiste nell’aggiungere programmabilità al mondo fisico. In un esempio per esplicitare questo concetto, egli ha suggerito di confrontare le prestazioni di una stampante 3D ad un bambino che assembla costruzioni Lego. L’assemblaggio della costruzione da parte del bambino sarà più accurata rispetto alle capacità motorie dello stesso, in quanto i pezzi sono progettati per montarsi insieme in allineamento.
Il processo di stampa 3D, invece, accumula errori, magari a causa di un’adesione imperfetta negli strati inferiori. Una materia capace di essere programmabile, funzionerebbe come i mattoni della Lego. Neil Gershenfeld ha spiegato come il sistema di costruzione della Lego rappresenti la digitalizzazione del materiale, mentre la stampa 3D è ancora un processo analogico che attinge a strumenti digitali e, proprio come fatto con i Lego, dobbiamo cominciare a digitalizzare la fabbricazione imparando a programmare la crescita dei materiali in modo che “..il codice sia immesso in loro e non li descriva solamente, ma diventi esso stesso materiale“.
“La fabbricazione digitale è digitalizzare non solo la fabbricazione ma il design, i materiali e il processo” (Wired, 2013 . Essa è, quindi, un processo di più lavorazioni che usa strumenti digitali per programmare la materia a diverse scale, al fine di ottenere un manufatto dalle prestazioni più elevate.
Il fine ultimo, sia dell’approccio progettuale legato al design computazionale, sia delle pratiche di fabbricazione digitale, risiede quindi nella possibilità di informare la materia, di renderla programmabile, di progettare non più il prodotto ma il processo che porta all’aggregazione della materia in differenti stati e che può avvenire a più scale, da quella molecolare a quella macroscopica, con materiali che ad oggi non sono considerati propri delle discipline sopra citate, ma che in futuro saranno sempre più vicini a quelli “vivi”.
L’approccio biomimicry all’architettura, così esasperato in alcune opere contemporanee, trova da questo punto di vista, una ragione nuova e sembra essere affrontato nella sua essenza più profonda, quella cioè che non cerca solo di imitare o prendere spunto dalla natura per l’ideazione di soluzioni o la generazione di forme, bensì quella che tende alla comprensione delle regole e dei processi che organizzano la materia in forma.
Su questo filone sono molti gli esempi che si potrebbero citare e che esplicitano gli argomenti su trattati. Su tutti ne emergono cito due per la coerenza interna con cui sono arrivati al risultato finale e per le qualità intrinseche dello stesso.
Il primo riguarda un lavoro di Neri Oxman sviluppato nell’ambito della collaborazione con la stilista Iris Van Herpen per il suo show “Voltage”. L’abito stampato in 3D è stato prodotto utilizzando la tecnologia Objet Connex per la stampa multimateriale della 3D Stratasys. Essa permette di avere una varietà di proprietà dei materiali da stampare in una singola generazione di stampa. Il progetto riesce nell’intento d’immettere informazione nella materia, donando allo stesso pezzo stampato differenti proprietà, da quelle che riguardano la meccanica – poiché la parte nera è più flessibile della parte bianca -, a quelle che riguardano il colore, fino alle proprietà relative alla forma. L’aspetto progettuale, in questo caso, è stato portato avanti di pari passo con la ricerca tecnologica sui sistemi di stampa della Stratasys.
Si realizza, quindi, quella sintesi tra progetto e possibilità realizzative che porta i manufatti artificiali ad assumere performance molto più elevate di quelle attualmente in uso comune. Nella pratica di Oxman è evidente un tipo di ricerca che parte da un approccio form-finding alla progettazione, ma che si sposta su sentieri che indagano nel profondo i processi di organizzazione della materia in natura. La stessa Oxman (AD, 2012) racconta come l’approccio progettuale classico permette di attingere ad una varietà di materiali scelti di volta in volta per caratteristiche meccaniche (o riguardanti la struttura del materiale come chimiche, termiche, etc.) o funzionali (riferite alle capacità che quel materiale presenta, come ad esempio immagazzinare energia), ipotizzando la distribuzione di quel materiale come isotropa. In natura, però, come dice la stessa Oxman, sono rare le configurazioni isotrope, poiché l’aggregazione della materia, crea materiali anisotropi che sfruttano appieno il principio del minor sforzo con il massimo risultato riuscendo a modulare le caratteristiche dell’elemento naturale (e quindi anche le sue funzioni) e mutando la composizione strutturale del materiale stesso in relazione a differenti direzioni spaziali. Un’anisotropia digitale è quella che tenta di muovere i passi nei lavori portati avanti dal gruppo del Mit Mediated Matter, dove le prestazioni delle tecnologie di fabbricazione digitale sono spinte al massimo. Qui si attua la realizzazione di manufatti in cui la materia viene organizzata ed aggregata su differenti scale, in modo non omogeneo, né per direzione, né per densità, attraverso l’approccio computazionale al progetto. Il secondo esempio riguarda il padiglione costruito nel 2010 presso l’Università di Stuggart dal gruppo di ricerca ICD/ITKE guidato dal prof. Achim Menges. La struttura innovativa mostra gli ultimi sviluppi nella progettazione computazionale, nella simulazione e nei processi di fabbricazione in architettura. Il risultato è una costruzione in legno a piegatura attiva, realizzata interamente da sottili strisce di compensato elasticamente piegate. Qualsiasi manufatto materiale può essere ricondotto a un sistema di pressioni interne, esterne e di vincoli. La sua forma fisica è determinata da tali pressioni. Tuttavia, in architettura i processi di progettazione digitale, raramente sono in grado di riflettere e di utilizzare queste intricate relazioni. Mentre nel mondo fisico la forma è sempre collegata alla relazione materia/forze esterne, nei processi virtuali, le forze sono di solito trattate come entità separate. Tale padiglione ricerca una strada alternativa a questo approccio: qui, la generazione del modello di calcolo è direttamente guidata ed informata dal comportamento e dalle caratteristiche fisiche dei materiali. La struttura è interamente basata sul comportamento in flessione elastica di strisce di compensato di betulla. Le strisce sono fabbricate da antropomorfi a 5 assi come elementi planari e, successivamente, collegati in modo che le regioni elasticamente piegate e in tensione, siano alternate nella direzione della loro lunghezza. La forza che viene memorizzata localmente in ciascuna regione piegata della striscia e mantenuta dalla corrispondente regione di tensione della striscia adiacente, aumenta notevolmente la capacità strutturale dell’intero sistema. Il modello di progettazione computazionale incorpora le caratteristiche comportamentali dei materiali e i pertinenti principi strutturali. Tali dipendenze parametriche sono state definite attraverso un gran numero di esperimenti fisici, focalizzati sulla misurazione delle deviazioni del compensato curvato e su altrettante simulazioni virtuali. Nel padiglione di Achim Menges, la sintesi tra approccio progettuale e realizzazione è tesa ad usare l’integrazione tra caratteristiche materiche e proprietà fisiche come input per il governo del processo di generazione della forma. È a questi esempi che, a mio parere, dobbiamo guardare per ricercare uno spirito contemporaneo nel fare architettura e design.
BIBLIOGRAFIA:
- Nick Dunn, Digital Fabrication in Architecture– September 19, 2012
- Lisa Iwamoto, Digital Fabrications: Architectural and Material Techniques (Architecture Briefs);
- di Farshid Moussavi, Function Of Form; October 2009
- Wassim Jabi, Brian Johnson, Robert Woodbury– Parametric Design for Architecture ; September 3, 2013
- AD april 2013, Material Computation: Higher Integration in Morphogenetic Design;
- AD april 2013, Computation Works: The Building of Algorithmic Thought;
- Achim Menges, Sean AhlquistComputational Design Thinking: Computation Design Thinking ; October 2011
- Michael Hensel Performance-Oriented Architecture: Rethinking Architectural Design and the Built Environment; April 2013
- Yasha J. Grobman, Eran Neuman Performalism: Form and Performance in Digital Architecture; October 2011
- Jane Burry, Mark Burry The New Mathematics of Architecture; April 2012
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